La comunicazione politica all’epoca dei social, tra disintermediazione e orizzontalità
5 Ottobre 2023 – 17:07 | Nessun commento

E’ fenomeno orami consolidato, da almeno 10 anni a questa parte, il direttissmo comunicativo permesso ai soggetti politici dai social networks. Da questo punto di vista è possibile parlare di un fenomeno di mediatizzazione della politica o webpolitics, che garantisce una diffusione ad una platea straordinariamente più ampia del messaggio politico.La mobile revolution ha reso poi i social media straordinariamente piu’ diffusi e pervasivi, garantendo inoltre l’immediatezza del messaggio politico.In un metaverso che vede archiviata… Read more

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Mappe stradali per viaggi rivoluzionari: il ’77 italiano

Scritto da – 7 Settembre 2010 – 09:37Nessun commento

Se la storia è maestra di vita, il rock è stato spesso il gessetto ideale per scrivere ed incidere valori e visioni sulle lavagne di milioni di vite incuriosite e in cerca di cambiamento. Tuttavia la storiografia ha corso talvolta il rischio di omogeneizzare le pulsioni legati a periodi di particolare fermento culturale in alcune scatole concettuali preconfezionate, tentando quasi di darsi ostinate certezze da cui partire per eventuali riflessioni a posteriori.

A tal proposito il ’77 italiano è sempre stato visto come l’enfant terrible dei movimenti studenteschi del secondo dopoguerra, un lapillo nichilista munto dagli ultimi nervosi colpi di coda di un ’68 ormai boccheggiante. In realtà quel fatidico anno fu per l’Italia molto più caratterizzante ed emblematico rispetto a ciò che avvenne negli altri paesi occidentali. Il Belpaese, noto per esser emotivo e poco pragmatico, ebbe paradossalmente una delle rivolte giovanili più durature, meditate e consapevoli del decennio. Rispetto all’aggressività delle barricate del maggio francese e dei Black Panthers, o all’epidermico stravolgimento dei costumi della Londra prima swinging e poi glam, fino all’iconica summer of love californiana, l’Italia tenta la rivoluzione diesel.

Spreca l’epoca dei festival di Monterey, Woodstock e Wight dietro alle frivolezze beat (o come si diceva all’italiana, “bitt”), limitandosi a farsi crescere i capelli, a giocare con Moog & Hammond, camicie floreali dai colori imbarazzanti e i primi spinelli. E proprio quando tracollerà il sogno hippie americano e dagli States arriverà il disincanto di una american pie avariata, da Milano a Roma quegli stimoli già “obsoleti” innestati in casa nostra creeranno un frutto imprevedibile.

Dall’embrionale fascino prettamente intellettuale per nuovi stilemi musicali, letterari e artistici, si arriva a portare quel profumo di rivolta dentro le piazze, le case, tra i divani dei genitori democristiani, dentro il rifiuto della leva militare, abbracciando il misticismo e le suggestioni di un nuovo modo di concepire la religiosità, dipingendo il quotidiano con il fatidico motto “il privato è politico” (parafrasi dell’illustre slogan di Harvey Milk “all politic is personal”).

Milano nel dettaglio diventa lentamente epicentro di ogni iniziativa, di ogni mobilitazione, dal sabotaggio della XIV Triennale ai megafoni di Mario Capanna prima in Cattolica e poi in Statale, fino ai festival del proletariato giovanile, inaugurati nel 1971 a Ballabio (CO) e l’anno successivo a Zerbo (PV), per arrivare ai leggendari Festival del Parco Lambro. Le tre giorni del Proletariato Giovanile, dove per cinquecento lire potevi  sentire gli sperimentalismi inusitati di un giovane siciliano capellone di nome Franco Battiato che stravolgeva a colpi di sintetizzatore Sapore di mare come a Woodstock Hendrix aveva fatto con l’inno nazionale americano (e il confronto risulta totalmente appropriato). Fu il festival di Re Nudo dove giganti come Area, PFM e Stormy Six si sfidarono a colpi di avanguardie sonore, con soluzioni compositive innovative e orgogliosamente italiane, creando da soli un’intera frangia della corrente prog, una pagina di storia del rock con gli anni invidiata e venerata a livello internazionale.

Il portavoce di quella generazione divenne però un giovane ragazzo metà bergamasco e metà americano che era cresciuto in quelle feste, ai raduni e nei collettivi, che aveva esordito con l’etichetta di Battisti, la Numero Uno: si chiamava Eugenio Finardi, e girava l’Italia in tour affiancato da un altro menestrello ibrido, Alberto Camerini, nato in Brasile e futuro Rock’n’roll robot, ma all’epoca semplicemente suo fido chitarrista. Completavano la formazione Paolo Tofani e Ares Tavolazzi degli Area, e il magmatico Lucio “Violino” Fabbri, futuro membro della PFM.

Eugenio Finardi, creò la “musica ribelle” che i giovani stavano cercando, osando più di tutti nella ricezione di ogni influenza rock d’oltreoceano, diventando forse il primo rocker di razza italiano. Un Bruce Springsteen nostrano con tanto di orecchino, camicia e jeans sgualciti e Les-Paul a tracolla (al posto della Telecaster del boss): un grande polistrumentista ed esperto fonico ma soprattutto il paroliere che l’Italia del rock attendeva:  spazzati via i sofismi auto-compiaciuti e lo spleen metropolitano dei cantautori classici che avevano animato i primi settanta, Finardi non cercava poesia o allegorie, voleva parlare negli occhi ai ragazzi che assediavano i suoi concerti.

Nasce in questo clima l’album spartiacque della sua carriera, quel “Sugo” (1976) celeberrimo per gli inni generazionali di “Musica ribelle” e “La radio”, ma senza possibilità di previsione di quel capolavoro che sarebbe stato l’anno successivo “Diesel”. Finardi scrive l’album simbolo del ’77. E non lo sa. Sta cavalcando in prima linea un’epoca storica che verrà associata per sempre al suo disco, a quella copertina quasi da De Chirico proletarizzato in un’incidente stradale tra il dripping di Max Ernst e le illusioni fotografiche di Moholy Nagy. Cavalca, ma sa tenere le briglie, e in questo sta il segreto di questo disco, immerso completamente nella sua epoca ed allo stesso tempo assoluto per la purezza cristallina dei suoi messaggi.

Il ’77 porterà cinismo e disincanto, punk e disco-music, Tony Manero, Skiantos, la Rettore e gli espropri proletari conditi da P38, autonomi, e gambizzazioni a go-go. Ma era iniziato con uno dei più formidabili inni alla matura consapevolezza umana scritti da penna italiana, “Non diventare grande mai” (“il tuo dovere è di migliorarti/ di stare bene di realizzarti/ cerca di essere il meglio che ti riesce/ per poi darti agli altri”). Un elegia all’amore per la scoperta, all’importanza dello spirito critico, all’obiettività e alla gioia speranzosa di cambiare, di poter creare nuovi equilibri, nuovi sistemi sociali, o di nutrire attraverso gli stimoli esterni il nostro “io” più intimo (“Non diventare grande mai/non serve a niente sai/continua a crescere più che puoi/ma non fermarti mai”). La rivoluzione di cui Finardi vorrebbe farsi cantore è un continuo arricchimento collettivo, dove esser animale politico si fonde all’homo amantis, con gli occhi su Saigon (l’inno alla resistenza vietnamita di “Giai Phong”) e il corpo tra le braccia di una donna da considerare con istinto (“L’Amore non è nel cuore, ma è riconoscersi dall’odore”) e lucido desiderio di costruire dialogo e quotidiana complicità (“L’amore è fatto di gioia, ma anche di noia”). Non manca neanche il richiamo autobiografico alla droga, quella cattiva e lancinante di “Scimmia”, come la condanna a una “Scuola” che allora come ora sforna più disoccupati laureati che individui dotati del giusto bagaglio culturale per affrontare le immediate difficoltà della vita.

Diesel è un piccolo amuleto da tramandare ai nipoti più irrequieti, un miraggio sotto la pioggia prima di un deserto ideologico ed emotivo dove ancora noi stessi ci troviamo, esploratori post-moderni in cerca del carburante giusto. E per far ripartire i motori e i cuori anche di questo abbiamo bisogno, di mappe stradali così magicamente attuali.

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