Heiner Müller, uno scrittore fra due dittature
Personaggio scomodo e controverso, non è molto noto in Italia, ma in Germania è uno dei drammaturghi più rappresentati ed emblematici. Nella sua tormentata esistenza assiste alla dissoluzione di tre stati: la Repubblica di Weimar, il Terzo Reich e la Repubblica Democratica Tedesca. La sua produzione letteraria, incentrata sul rapporto fra individuo e collettività, risente profondamente degli avvenimenti storici che segnano la Germania del Novecento; pur professandosi comunista e non abbandonando la DDR (Repubblica Democratica Tedesca) rimane deluso dall’attuazione concreta del socialismo e non aderisce all’ideologia del nuovo stato, che soffoca la libertà e il benessere di quegli operai che dovrebbe invece difendere. Coscienza critica della Germania Est, ne paga le conseguenze in termini di censura e allontanamento dalla vita pubblica, ciononostante, dopo la riunificazione, si sente un “sopravvissuto” e non riesce ad adattarsi al nuovo clima: vede chiaramente i limiti del socialismo reale, ma anche quelli di un Occidente che ha perso la sua anima inseguendo una vuota opulenza.
Viene messo in discussione per la collaborazione con la Stasi, la temibile polizia segreta della Germania dell’est, ma diventa anche direttore del Berliner Ensemble, il teatro più prestigioso del paese, fondato da Brecht ed Helene Weigel. Compone drammi, liriche, un’autobiografia; rielabora i grandi classici contaminandoli con una modernità mai scontata; si cimenta con la regia e si compiace nel dare interviste, sempre all’insegna della contraddizione, della frammentarietà, del rifiuto di verità universalmente valide e di facili risposte. Scrittore ostico, complesso, mira alla sostanza delle cose spogliate di ogni apparenza consolatoria, “inventando” un linguaggio denso, espressionista, talvolta ai limiti della comprensibilità, proprio come il mondo contemporaneo.
Si sente l’eco del teatro dell’assurdo, di Beckett, di Genet e del corrosivo Artaud, profeta del “teatro della crudeltà”, che come Müller, entra nella coscienza e distrugge la realtà consolidata.
Il suo è un teatro di rottura: rinuncia al personaggio principale, il linguaggio diventa un flusso ininterrotto, la frase non rispetta sempre la sintassi e torna alla tragedia in versi. La prima fase della produzione drammaturgica di Müller risente del magistero di Brecht e del suo “teatro didattico”, ma soprattutto del difficile momento storico che la DDR attraversa, dovendo passare nel giro di pochi anni all’economia pianificata di stampo sovietico e alla collettivizzazione delle terre.
Dopo ripetuti problemi con la censura e l’estromissione dalla vita culturale del paese, si volge ai classici, per continuare la sua riflessione sull’uomo come “animale sociale” al riparo dalle urgenze della contemporaneità.
Adombrati sotto vicende mitologiche, ritornano i consueti problemi del vivere insieme: menzogna, sopraffazione, violenza, ragion di stato, espressi con un linguaggio concentrato, stratificato, mentre le forme drammatiche passano dal monolitismo della tragedia greca al frammento, dall’azione alla narrazione, dal dialogo al monologo.
Numerose sono le opere in cui torna una delle sue ossessioni, la storia tedesca dal Settecento di Federico di Prussia al tragico Novecento, Germania morte a Berlino e Germania 3.
La creatività proteiforme di Müller negli ultimi anni si dedica alla regia, anche lirica, all’autobiografia Guerra senza battaglia, di una disarmante sincerità anche sugli aspetti meno edificanti della sua vita, alla poesia e al montaggio in nuove forme dei suoi lavori.
Non ha una visione monolitica della realtà, ma continua ad aggiornare le sue posizioni alla luce dei cambiamenti che avvengono nella società: la questione di quanto il singolo si debba sacrificare per il bene comune subisce un’evoluzione nel corso del tempo, ma non teme di essere tacciato per questo di opportunismo e ipocrisia. E’ un drammaturgo che spiazza, che pone problemi più che suggerire soluzioni ed esige da parte del pubblico una partecipazione attiva e un’interpretazione personale di ciò che vede sulla scena.
Simona Lomolino
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