La comunicazione politica all’epoca dei social, tra disintermediazione e orizzontalità
5 Ottobre 2023 – 17:07 | Nessun commento

E’ fenomeno orami consolidato, da almeno 10 anni a questa parte, il direttissmo comunicativo permesso ai soggetti politici dai social networks. Da questo punto di vista è possibile parlare di un fenomeno di mediatizzazione della politica o webpolitics, che garantisce una diffusione ad una platea straordinariamente più ampia del messaggio politico.La mobile revolution ha reso poi i social media straordinariamente piu’ diffusi e pervasivi, garantendo inoltre l’immediatezza del messaggio politico.In un metaverso che vede archiviata… Read more

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Jalla Jalla Baye Satoll: Racconto di due settimane in Africa

Scritto da – 19 Agosto 2010 – 10:11Nessun commento

Imprigionare su carta un’emozione così profonda, cristallizzare un viaggio in Africa, anzi, il primo viaggio in Africa, in un articolo, è arduo. Ma un viaggio senza racconto è come se non fosse mai stato intrapreso. Allora, mesi dopo, eccomi qui a rimembrare il sole, la sabbia e il sapore del Senegal. La mia visita a Dakar aveva un piccolo scopo umanitario. Il Movimento Umanista ha lanciato delle attività di volontariato internazionale tese a creare una rete di contatti in loco. In più c’è da seguire la formazione dei vecchi volontari e consolidare la rete già esistente, in modo da consentire un allargamento e un’evoluzione delle campagne in corso. I progetti in via di sviluppo sono molti, il primo dei quali è una campagna (StopMalaria)d’informazione per prevenire le malaria, la seconda causa di mortalità del paese. Ma parallelamente si cerca di creare un solido gruppo che possa ricreare la struttura sociale in un paese che è passato da una pura e semplice vita di villaggio, all’ambizione di essere uno degli stati guida dell’Africa, un paese che sta cercando di evolvere tecnologicamente ma che ha perso totalmente di vista le politiche sociali, un paese in cui il centro della capitale è una taiga di palazzoni di multinazionali occidentali in cui c’è vita solo negli uffici. Poi ci sono le pulizie di quartiere (set-setal), la diffusione informazioni totalmente sconosciute in Africa, i corsi di alfabetizzazione per donne e bambini post scolastici, il tutto a seconda delle esigenze del singolo gruppo del singolo quartiere di Dakar. Il compito dei volontari stranieri (ce ne sono di francesi spagnoli tedeschi…) è quello di mettere in moto una macchina, che poi progredirà sostanzialmente da sola per la maggior parte dell’anno. E a Dakar non facile. Dakar è un non luogo, una città fantasma, che non ha strade né confini definiti, nè case meritevoli di questo nome. Dakar ha una “ville” frenetica, pervasa dal morbo dell’avidocrazia occidentale, l’arsura non da deserto ma da guadagno. Tutt’attorno si sviluppa una costellazione di quartieri fatti di casa sventrate, incomplete (un Meridione italiano post guerra mondiale…), montagne di rifiuti e fiumane di gente, sempre e costantemente riversa nelle strade. Salvemini disse che la Libia era uno scatolone di sabbia. Anche il Senegal lo è, salvo la zona del fiume Gambia, ricca di vegetazione, che infatti è divenuto un paese autonomo, la Gambia (ex colonia inglese) e la Tchasamas (la grafia è un po’inventata), regione meridionale del paese in cui è in corso da anni un guerra tra briganti per l’egemonia nel mercato delle arachidi, fonte primaria del guadagno nazionale. Per il resto è come se dal cielo, bianco di smog, come a Milano, qualche dio locale, nella notte dei tempi, abbia coperto le città con un manto di sabbia. E il paesaggio naturale senegalese appare come sbiadito, pieno di colori che variano tra il beige, l’ocra e il bianco sporco. Al contrario, chi vive in Senegal, si porta addosso tutti i colori della vita. I bubu maschili, dei pigiamoni svolazzanti con fantasie varie, oppure le vesti femminili, che possono avvolgere sinuose i fianchi delle più giovani o lasciarsi cadere a terra, come le ampie gonne delle matrone locali. In Senegal il carnevale è permanente. La gente si esprime molto col suo modo di agghindarsi, a volte assolutamente autoctono e folkloristico ma sempre più spesso contaminato da mode occidentali. Ma è in occasione delle feste che la cura del corpo, attività principale della maggioranza delle persone – ci sono più coiffeur che alimentari, i ragazzi sono costantemente in giro a fare attività fisica di ogni genere, le donne passano il loro tempo nei negozi di tessuti – tocca il suo apice. E  poche ore dopo aver preso contatto col suolo africano, abbiamo avuto l’onore di partecipare ad un matrimonio africano, come grandi invitati. La festa è una specie di addio della faime, la sposa, alla vita mondana, nel senso che d’ora in poi le sue mansioni si limiteranno all’ambito casalingo e familiare. Le spese, i figli, la casa… e poco altro. Lo sposo concede così questa serata libera alla neoconsorte aspettandola nel nuovo nido d’amore. Il giorno dopo si celebrerà il solenne trasloco delle suppellettili della sposa dalla casa d’origine. Un evento che nel quartiere ha una portata mostruosa, che ne mobilita tutti gli abitanti. Ed è qui che ho conosciuto Cheik-Fall, mon frère senegalais. Alto quasi due metri, il mento cinto da un’ombra di pizzetto, regale e fiero nell’andatura, intenso e profondo in ogni sguardo. Studia giurisprudenza e si mantiene lavorando in un bazar. Col cuore in mano, spera di poter trasformare il suo paese in uno stato più progredito. Nonostante le mie difficoltà con una lingua mai stata mia e mai appresa sui banchi di scuola, siamo riusciti a condividere sogni speranze ambizioni. L’urgenza comunicativa è stata talmente intensa che ogni barriera linguistica è stata superata. Tra tutto quello che mi ha insegnato c’è una frase che mi piace molto: la risposta a tutti quelli che dicono di continuo Salam Alekhum, saluto locale ma anche uno dei modi di dire che sottendono un fatalistico abbandono tra le braccia di Allah. Noi diciamo qualcosa del tipo “aiutati che Dio t’aiuta”, invece loro usano la formula “Jalla jalla baye satoll”, letteralmente intraducibile… Approfitto per ringraziarlo, anche in questa sede. Torniamo alla serata del matrimonio. Cheik-Fall mi ha poi consegnato a Abdu, un suo amico, chiedendogli di farmi da Cicerone per un tour dei sobborghi di Dakar. Così siamo saliti su un car rapid, un pulmino anni ’80 che funge da mezzo pubblico (in realtà sono gestiti da una compagnia islamica. Sul capitolo “mezzi pubblici a Dakar” si potrebbe fare una lezione universitaria…) dove una ventina di persone di altezza media 190cm si spartisce 12 posti a sedere su un veicolo predisposto a portarne 8-9…Siamo stati a Yeambeul, il quartiere di Cheik-Fal, Charoi, il quartiere più povero e disagiato, Haslem Grand Medina, il nostro quartiere di residenza, sede di uno dei mercati più importanti della città, Guegeawai, il quartiere più esteso della città dove siamo scesi. Qui abita la ragazza di Abdu, una ventenne che dimostra poco più della metà dei suoi anni, che parla solo wolof, l’idioma africano d’origine, cui il francese si è soppiantato. Nei quaranta interminabili minuti d’imbarazzo passatati loro, ho osservato l’abitazione della ragazza. Un cortile quasi ad uso di discarica, su cui si affacciavano quattro porte, accesso per quattro piccole stanze. S’intuiva una piccola cucina, un salotto in cui ronzava una tv come in tutte le case senegalesi e due camere da letto. E un carosello di bambini di tutte le età che sfilavano di continuo, vestiti con due panni stropicciati. Tutti un po’ colpiti di vedermi lì, in casa loro, desiderosi di stringersi la mano per poi sussurrarsi la parola “Toubab”, bianco in wolof. Ci sarebbero ancora talmente cose da raccontare del Senegal…Il giorno del Tabaski, festa nazionale in cui si sgozza il montone, uno di quei deliri collettivi legati a celebrazioni religiose, la storia dell’isola di Gorè dove vennero deportati i primi schiavi di colore, la gita alla città di Thies, 80 km da Dakar, dove il tempo sembra immobile, così come le persone. Oppure la storia di Balla, di Dado, di Ibou, di Assanè, di Yaya, di Coly, di Babakar… La storia delle guide spirituali locali, i marabou, lestofanti (almeno secondo Cheik Fall) che si vestono in modo appariscente, millantano capacità mistiche inimmaginabili e predicano il loro credo trovando proseliti tra i più disperati… Ma forse ciò che è più senegalese di tutto questo, è il mercato. Dakar nasconde un mercato in ogni sua via. La gente riversa nelle strade trova sempre il modo di avere qualcosa da vendere. E le trattative sono sempre un’impresa… Il mercato di Haslem Grand Medina è un misto tra il frenetico flusso di gente e l’indolenza perditempo di molti dei suoi negozianti. Anche se le bancarelle si spandono fin sulla strada, il cuore del mercato è dentro un edificio che potrebbe essere il corrispettivo del nostro mercato rionale. È lì che aleggiano gli intensi odori dell’Africa, lì in quel dedalo di budelli che si assottigliano sempre più scompaiono sotto un grande tendaggio al centro del cortile del mercato, tendaggio che impedisce di camminare eretti tanto i drappi sono sdruciti e i loro sostegni instabili. Acre e pungente, dolce e leggero, irrespirabile o ammaliante, l’odore del mercato è la summa di tutte le sensazioni olfattive dell’Africa. E l’Europeo risveglia i suoi sensi ormai intontiti dal prefabbricato dal finto dal chimico dall’artificiale stimolato dalla squassante forza della natura africana.

Lorenzo Bagnoli


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