Da Raffaello a Schiele: Milano come Budapest nel segno della bellezza
Conclusa da pochissimo, la mostra “Da Raffaello a Schiele” si inserisce nella linea espositiva di Palazzo Reale che cerca di avvicinare il grande pubblico alle più prestigiose collezioni europee (troppo) spesso sconosciute o poco accessibili. In una cornice milanese che difficilmente delude si rincorrono quindi 76 opere provenienti dal Museo delle Belle Arti di Budapest, la cui esposizione e descrizione è stata affidata allo storico dell’arte Stefano Zuffi.
Ed è emozionante il fluire ininterrotto di capolavori che accompagna il visitatore attraverso le sale, lo scandirsi progressivo dei secoli e della bellezza che hanno portato con sé.
Il percorso, sobriamente allestito, si plasma mano a mano nella delicatezza della Madonna Esterhazy di Raffaello, nella forza inquietante delle donne di Cranach e di Artemisia Gentileschi. Il passare degli anni abbraccia l’Europa già celebre di El Greco e dei corposi popolani di Goya e quella più sconosciuta e legata al contesto ungherese, come la splendida “Donna con gabbia di uccello” di Rippl – Ronai. La bellezza, incarnata tanto spesso in corpo di donna, si fa matrona, principessa, dea, contadina, demone o sfinge nelle forme grafiche e forti dei preraffaeliti.Fino ad arrivare all’ultima stanza.
Il Novecento attende il visitatore defilato e silenzioso, covando la frattura profonda che si porta dentro. E se la Storia è stata un terremoto, l’Arte è tutta uno sgretolarsi, un infrangersi in visioni progressive e riaccostate, come specchi rotti.
Tantissimi i maestri riassunti sulle quattro pareti: da Van Gogh a Cezanne, da Monet a Gauguin, per arrivare ad un modestissimo Schiele che, senza troppi meriti, si aggiudica un posto nel titolo della mostra.
Inaspettata, invece, proprio sulla parete di fronte all’uscita, come un ultimo saluto, la splendida Veronika di Kokoschka.
L’autore, austriaco, allievo di Klimt, esponente di quella che fu chiamata “arte degenerata”, la definisce “la mia opera religiosa preferita”. E non si può non trovarla una preghiera, tracciata a pennellate tormentate e rapide, immersa in una luce mistica che sembra provenire più dal suo stesso corpo che dalla luna appena accennata alle sue spalle.
Nata alle soglie del XXI secolo, rivive un dramma antico di duemila anni con la forza e il tragico dolore di un’ Europa che si prepara alla guerra. Il volto di Cristo, stretto fra le mani come un neonato, è una maschera africana in cui sta incisa la paura, il terrore della morte imminente. E la stessa Veronica abbandona le forme gentilizie e composte che le appartengono per farsi donna vera, a cui si contano le costole, con gli occhi chiusi e le mandibole serrate nella disperazione tacita di chi, ancora prima di un Dio, ha perso un amico.
La mostra si conclude così, come uno strappo, dietro una tenda grigia. Da Budapest si ritorna alla Milano monumentale di piazza Duomo, della Galleria Vittorio Emanuele II, dei palazzoni di vetro e cemento. E quella bellezza uscita martoriata dallo scisma Novecento si disperde, insieme al visitatore, per strade nuove.
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