Il consenso di Monti: termometro di una democrazia ammalata
Se l’ilarità e la rumorosità non giocassero un ruolo rilevante nel nostro patrimonio culturale e genetico, si direbbe che il nostro orizzonte politico più probabile sia, anche nel lungo periodo, il governo dei tecnici. D’altronde, siamo il Paese dell’eccezionalità; l’istituzionalizzazione di una condizione straordinaria non stupirebbe proprio nessuno: a proposito di emergenze, abbiamo trovato la legge Pica nella culla dell’Italia post-unitaria, siamo passati per la legge Cossiga dell’’80 sul terrorismo e siamo finiti a nominare commissari straordinari per la “monnezza” di Napoli fino a tre anni fa.
Difficile rimane, oggi come ieri, tracciare l’esatto confine che distingue tra la mera legittimazione ad operare al di fuori delle regole preposte e la straordinarietà effettiva degli eventi. Ed ecco che, ancora una volta, lo stato di necessità minaccia di perpetuarsi nell’ipotesi del Monti bis. In altre parole, la reiterazione dell’esecutivo di Mario Monti non sarebbe altro che il naturale sviluppo del tradizionale consociativismo all’italiana. Mi riferisco all’ipotesi in cui l’economista bocconiano venga interpellato per guidare uno schieramento di centro, a seguito di elezioni in cui ciascun partito si candidi autonomamente. Diverso, naturalmente, sarebbe il caso in cui Monti si presentasse direttamente come candidato leader di una lista.
Nella prima circostanza, avremmo la dimostrazione dell’incapacità dei partiti di mettere in atto proposte dotate di una precisa identità politica. Ben vengano le competenze tecniche, ma non dimentichiamoci della linfa vitale della democrazia che è partecipazione e non salvezza dall’alto. Nell’incertezza che il prossimo Presidente della Repubblica che seguirà la costituzione del Governo sarà effettivamente Giorgio Napolitano, mancano gli elementi per affermare che il futuro assetto istituzionale favorirà una seconda discesa in campo del tecnico. Tuttavia, l’opportunità non è da scartarsi del tutto, a maggior ragione dopo le dichiarazioni per cui “se necessario [sarebbe] pronto a servire il Paese” risalenti alla fine dello scorso settembre.
Se sia a destra che a sinistra la frammentazione interna sembra irrisolvibile, la graduale migrazione verso un compromesso sembra un’ipotesi plausibile. Nel caso in cui ciò si realizzasse, sarebbe l’ennesima vittoria del trasformismo teso alla conservazione del potere, a scapito della chiarezza dell’offerta politica. A lungo l’emblema della continuità della classe dirigente in Italia è stato il voltagabbana; più volte negli anni ’60 sinistra e DC hanno governato insieme pur in mancanza di un fondamento ideologico condiviso: basti pensare al governo di Fanfani (1962), al primo governo Moro (1963) senza addentrarci nella seduzione dello stesso PCI per il compromesso storico. Quindi, cosa volete che ostacoli oggi, anche a sinistra, un abbraccio unilaterale al liberismo di Monti?
A questo punto dovremmo chiederci se tutto ciò sia sano dal punto di vista della vita delle istituzioni democratiche. L’unica funzione esclusiva ed infungibile della rappresentanza democratica è infatti il controllo politico, che è assicurato dalla presenza di una maggioranza e un’opposizione su basi competitive. Dal momento in cui gli aggregati politici abdicano alla propria funzione di rappresentanza della volontà politica del rispettivo elettorato per riunirsi sotto l’ala protettiva della sapienza tecnica, il meccanismo di controllo politico si inceppa ed il cittadino è impossibilitato a determinare la decisione sul merito della questione su cui si delibera.
Ma prima ancora di mettere in discussione una delle logiche fondamentali che disciplinano il funzionamento della democrazia rappresentativa, la prassi dei governi tecnici ci permette di mettere a fuoco i suoi limiti intrinseci: la difficile adattabilità alle situazioni di straordinaria amministrazione. Il governo Monti è stato certamente una conseguenza, della necessità di contenere una crisi economica in atto, ma anche e soprattutto il risultato di una crisi profonda della rappresentanza politica.
Ciò non vuol dire che i governi tecnici forniscano anche la naturale soluzione a quest’ultimo problema. La compagine ministeriale di Monti ha offerto certezze ai cittadini, senza essere rappresentativo di alcun ideale, se non quello della competenza tecnica, pretendendo addirittura di non essere politico. In realtà, la scelta delle modalità secondo cui compiere le manovre di risanamento economico implica una decisione che non può non essere di natura politica.
In altre parole, al di là dei conti, che vanno fatti quadrare, non c’è scampo dal dovere di stabilire come vadano fatti quadrare. Il governo dei tecnici mira a far apparire l’alternativa proposta come l’unica possibile in quanto prodotto della competenza, sublimata come un criterio assoluto. Ma attenzione: la crisi della rappresentanza politica è per questo governo una fonte di legittimazione e probabilmente l’unica.
Mirando all’obiettivo di ripristinare la salute della nostra democrazia, ci chiediamo se il governo Monti ne possa essere anche la soluzione. Se non ci fosse stata la crisi di rappresentanza, probabilmente non avrebbe avuto modo di esistere. E’ una condizione valida per i governi tecnici in generale: poteri tutelari che sostituiscono temporaneamente i partiti tradizionali non più in grado di rappresentare le fratture sociali, né di conciliare interessi frazionali a interessi comuni. In questi contesti, i tecnici non cercano un coinvolgimento diretto del cittadino, si limitano ad assicurarne i beni e a vigilare sulla loro sorte: il potere ha tanta più facilità a radicarsi tanto più lo scetticismo è diffuso, più acuta è la “sindrome del cittadino critico”.
Questa constatazione non sembra prospettare un’estensione dello spazio lasciato alla dimensione propositiva dell’elettorato. Per rispondere al quesito posto poco più su, dunque, come può portarci fuori da una crisi di rappresentanza democratica una compagine ministeriale che ottiene il potere proprio grazie all’incapacità dei partiti di rappresentarci? Mi sembra che la salute della nostra democrazia dovrebbe essere ristabilita tramite una migliore offerta politica, oltre che da mere competenze tecniche.
Allargando la riflessione al campo sociologico, l’esecutivo tecnico rimanda a quella dinamica per cui la procedura ha il sopravvento sugli esiti: il rispetto della regola per cui, per esempio, vanno fatti tagli alla spesa pubblica entro una scadenza data, diventa un valore in sé, autonomo dalla dimensione morale. La massimizzazione dell’efficacia nell’utilizzo dei mezzi messi a disposizione dallo Stato è un principio indipendente dal piano morale e potente abbastanza dal punto di vista ideologico da gettare nell’oblio le ripercussioni di ciascuna manovra. Bauman applicava questo concetto all’organizzazione burocratica e lo chiamava neutralizzazione morale o “adiaforizzazione”. E’ un atteggiamento accettabile in un sistema democratico soltanto per periodi circoscritti nel tempo e che non può diventare la norma. Il tema dell’adiaforizzazione diventa poi rilevante se lo caliamo in un contesto in cui è in atto un indebolimento lento e subdolo dello spirito democratico. Dal momento in cui il cittadino si predispone ad essere solo spettatore passivo e non attore dell’agorà politico, egli abdica al suo potere di giudizio su ciò che accade attorno a sé e in particolare nell’ambito della “res publica” ed è più facile somministrargli soluzioni di qualunque tipo.
Lungi dal voler suggerire che siamo di fronte all’affermazione finale del potere tecnocratico, forse è il caso di chiederci quale degenerazione del principio rappresentativo ci abbia portato a questo punto. Poi, chissà … Forse sarà proprio la nostra spensieratezza tutta italiana ad allontanarci, antropologicamente prima ancora che politicamente, dal rischio del governo meccanizzato e rigoroso dei tecnocrati.
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