Macao, ma poi? Da Facebook alla piazza, riflessioni e spunti sul fenomeno culturale più contagioso di Milano
Ci sono argomenti riguardo ai quali ognuno si sente in dovere di esprimere un’opinione: uno di questi è Macao. 31mila like su Facebook, 1388 persone parlano di questo argomento, a maggio Milano sembra il centro del mondo. Il fenomeno, vero e proprio campione di comunicazione, studiato a colpi di grafici e “analisi del sentiment” dei post dal Centro Studi Etnografia Digitale, è esploso come un contagio. Eppure manca chiarezza su diversi aspetti. Innanzitutto, Macao non nasce dal nulla. Il << grande esperimento di costruzione dal basso di uno spazio dove produrre arte e cultura>> nasce come evoluzione dell’associazione Lavoratori dell’Arte, fondata il 25 settembre 2011, che, vi ricordate?, aveva fatto parlare di sé con l’occupazione del PAC. L’obiettivo primario dei Lavoratori dell’Arte era sostanzialmente quello di <<ripensare in modo radicale il sistema nel quale lavoriamo e produciamo cultura>>.
A sua volta il gruppo prende ispirazione dall’occupazione del Teatro Valle di Roma, esempio di autorganizzazione di Lavoratrici e Lavoratori dello Spettacolo, che si sono ribellati ai tagli alla cultura e si sono presi da soli lo spazio negato dalle istituzioni. Comuni a tutti l’insofferenza per le istituzioni culturali, l’idea di rifondarle dal basso e l’occupazione di spazi problematici. Coup-de-theatre perfettamente riuscito, il 5 maggio Macao occupa la Torre Galfa, si crea un logo e una vera e propria “brand identity”, istituisce tavoli di lavoro, mette in sicurezza (?) l’edificio, allaccia – abusivamente – la rete elettrica, organizza concerti e performance. Il messaggio è forte: ecco che cosa l’arte e la cultura possono fare, e quante persone sono interessate a prendersi, anzi a “riappropriarsi” degli spazi della cultura.
Le istituzioni cominciano a preoccuparsi, e le fragilità rivelate sono diverse: prima Pisapia propone uno spazio all’ex Ansaldo che, in realtà, è già destinato da anni a diventare luogo per l’arte contemporanea come parte del Museo diffuso sul territorio. La proposta suona come un contentino. Boeri corregge il tiro: okay, Macao alle “Officine della Creatività Ansaldo”(tra l’altro, siamo proprio sicuri di voler assegnare l’acronimo OCA alla sede della creatività milanese?), ma solo presentando regolare domanda per il bando. Macao dice no. L’assessore si dichiara comunque grato per le problematiche svelate. Ma gli serviva Macao per accorgersi degli eco-mostri di un’urbanizzazione disordinata e dei paradossi di una cattiva gestione dei fondi pubblici a Milano? Non dovrebbe essere compito suo ovviare a problemi del genere? Non è che occupare la Torre Galfa o puntare i riflettori su Palazzo Citterio (parte del progetto della Grande Brera dal 1977!) significhi proprio aver aperto un dossier segreto…
Comunque sia, il ruolo fondamentale di Macao è stato un altro: quello di aver dato, seppure per un momento abbastanza breve, un esempio di buon governo. I tavoli di lavoro alla Torre Galfa hanno sottolineato quanto siano fruttuose la collaborazione e lo scambio di competenze tra grafici, designer, musicisti, fotografi, critici, artisti, esperti di comunicazione nelle pratiche culturali. E soprattutto, la campagna di comunicazione ha funzionato in modo sorprendente avvicinando il grande pubblico che “non mi interessa/non me ne intendo di arte contemporanea”.
Ma è abbastanza comodo trincerarsi dietro la retorica della “cultura come bene comune” e molto più difficile passare ad un’azione concreta, che apporti davvero dei miglioramenti al sistema dell’arte. Nel Macao-Linguaggio si genera troppo spesso una confusione e sovrapposizione di concetti: la cultura a Milano di spazi ne ha moltissimi, il vero dramma non è tanto la mancanza di spazi, ma il precariato, che impedisce di portare avanti con continuità progetti seri.
Il problema non è certo soltanto dei lavoratori dell’arte, questi ultimi hanno però l’ “aggravante” di essere figure professionali che vivono di competenze flessibili: una flessibilità che andrebbe tutelata e riconosciuta anche economicamente per poter generare risultati. Se penso al futuro di Macao, mi aspetto maggiore limpidezza di intenti ed impegni a lungo termine. Se le istituzioni non funzionano, se i soldi non bastano per tenere aperta una realtà d’eccellenza milanese come la Fondazione Pomodoro, bisogna capire che non servono certo nuovi spazi, ma nuovi modi di finanziare la cultura e restituirla alle persone.
In molte occasioni Macao ha portato avanti un discorso autoreferenziale: ha trovato il modo vincente di comunicare, ma ha comunicato in gran parte se stesso. E non senza una certa immaturità. Il messaggio “prima occupo, poi cerco il dialogo con le istituzioni”, non solo è pericoloso, ma non può funzionare oltre lo slancio iniziale. Invece di indire assemblee per parlare di se stessi, perché non si creano degli esempi virtuosi di pratiche culturali ed eventi che non si esauriscano nell’effimero? Macao ha dimostrato che un nuovo modo di intendere la cultura a Milano è possibile, e siamo in tanti a volerne parlare.
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