Jean Paul Sartre, La nausèe
“Non posso dire di sentirmi sollevato né contento: al contrario, è una cosa che m’accascia. Soltanto, il mio scopo è raggiunto: so quello che volevo sapere; tutto quello che m’è accaduto dal mese di gennaio l’ho capito ora. La Nausea non m’ha lasciato e non credo che mi lascerà tanto presto; ma non la subisco più, e non è più una malattia né un accesso passeggero: sono io stesso.”
Antonio Roquentin è la Nausea. Pagina dopo pagina Sartre ci porta, insieme al protagonista, a questa conclusione. Ciò che lascia sbalorditi è la straordinaria lucidità e precisione con cui Roquentin descrive il suo Malessere. Non sorprenda però, questo è il leit motiv degli esistenzialisti, fin dai primordi di Kierkegaard. Siamo assaliti da uno stato di insoddisfazione e di scoramento, desolazione e disincanto senza renderci conto di vivere. Strutturato come una specie di diario giornaliero, La Nausea è più di una sterile narrazione dei fatti. E’ una confessione vera e propria, un appello accorato e sincero a chi legge le sue memorie, di stare attento a non lasciarsi affascinare dalla bestia della vita, che non ci permette di Esistere. Viviamo senza esistere. Affrontiamo ogni giorno con eguale animo, ci affidiamo alla routine degli eventi senza fermarci, scendere un secondo dal palcoscenico dove recitiamo la nostra parte di ‘umanitari’ per deridere con distacco la banalità della vita umana. La sconcertante verità cui siamo messi davanti potrebbe senza dubbio disturbarci, darci fastidio e muoverci all’odio. E’ questa la precipua preoccupazione di Roquentin – citato ben poche volte per nome, sempre io narrante: che la gente non capisca la sua angoscia. Né Anny né tantomeno l’Autodidatta. Su quest’ultima figura vorrei soffermarmi un po’ di più. Egli rappresenta il candore dell’ignoranza di provincia (immaginiamoci la provincia francese tra le due guerre) che, mossa dall’anelito di riscatto culturale, sprofonda nel più lirico dei drammi. La costante e apprezzabile volontà dell’Autodidatta – così soprannominato dallo stesso Roquentin e rimasto tale per antonomasia – lo portano a condurre un’esistenza scialba, fatta di letture in biblioteca, allo scopo di acquisire la Scienza. Dapprima visto con disprezzo, poi via via ammirato e infine difeso, dimostrano una minima apertura verso il mondo esterno. Non vi dirò perché viene difeso da Antonio Roquentin, vi toglierei il gusto della sorpresa. Vi dirò solo che vi sorprenderete di provare tanta solidarietà verso un personaggio abbastanza secondario come l’Autodidatta appunto.
Durante le numerose pause di riflessione e di ammonimento, vediamo crescere e prendere coscienza di sé il protagonista. Certo, la visione non è delle più ottimistiche. Concordo su questo punto con i detrattori di Sartre e degli Esistenzialisti in generale. Ma non dobbiamo perderci d’animo. Anzi, se possibile, cercare di fare nostri tutti i messaggi che ci arrivano indirettamente e non, per conservarli nel fondo del nostro animo. In qualche verso apriremo gli occhi e capiremo molto di quello che, erroneamente, davamo per scontato. (Celeberrima la descrizione particolareggiata della scrivania di Roquentin). Non mancheranno i momenti comici e i momenti tragici. Tuttavia, bando ad ogni nichilismo, questo libro è molto distante da ogni influsso schopenauheriano. Egli non ammetteva vie d’uscita, Sartre sì. Quantunque difficili da imboccare.
Ho volutamente tralasciato le considerazioni fatte da Roquentin dopo l’incontro con Anny, non avendole trovate molto coerenti con la storia e soprattutto ininfluenti con l’iter filosofico intrapreso e concluso subito dopo. Comunque, un Capolavoro.
“Un libro. Un Romanzo. E ci sarebbe gente che leggerebbe questo romanzo e direbbe: è Antonio Roquentin che l’ha scritto, era un tipo rosso che si trascinava per i caffé, e penserebbe alla mia vita come io penso a quella di questa negra: come qualcosa di prezioso e di semileggendario. Un libro. […] Allora, forse, attraverso di esso, potrei ricordare la mia vita senza ripugnanza. Forse un giorno, pensando precisamente a quest’ora, a quest’ora malinconica in cui attendo, con le spalle curve, che sia ora di salire sul treno, sentirei il mio cuore battere più in fretta e mi direi: quel giorno a quell’ora è cominciato tutto. E arriverei – al passato, soltanto al passato – ad accettare me stesso.”
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