Nel Blu dipinto di grigio: la strage dei graffiti a Bologna
Il 18 marzo è stata inaugurata a Bologna la mostra Street Art. Banksy & Co. Sottotitolo: “l’arte allo stato urbano”. Un’occasione – come è stata definita – per “avviare una riflessione sulle modalità della salvaguardia, conservazione e musealizzazione di queste esperienze urbane”.Un’occasione – come si è dimostrata – di riflessione e di polemica riguardo a una delle forme di arte che più specificamente appartengono agli ultimi decenni. Il nocciolo della questione è semplice: che i graffiti trovino il loro posto in luoghi scomodi, poco curati, sui muri che si scrostano o sugli edifici a rischio di demolizione è noto, e anzi, sta alle radici della loro esistenza. Altrettanto chiaro è che un’esposizione così immediata sulla strada non può che abbandonare ad un pericolo costante opere d’arte conosciute e apprezzate ormai a livello internazionale. E lo scopo dichiarato della mostra è proprio quello di salvaguardarne esempi fra i più celebri, riproducendoli all’interno dello spazio espositivo o addirittura arrivando a trasportarli fisicamente nel museo insieme a parte del supporto originario.
L’operazione, già di per se discutibile, si riveste così della patina dorata della conservazione e della tutela, ponendosi sotto l’ala protettrice di coloro che, normalmente, si schierano contro la natura illegale del graffitismo. La risposta dei diretti interessati non si è fatta attendere: il più celebre e sfuggente del gruppo, Blu, che proprio a Bologna aveva cominciato la sua carriera, ha ricoperto di pittura grigia le proprie opere. L’atto estremo è stato accolto dalle proteste di buona parte della cittadinanza, che ha organizzato anche petizioni per salvare quello che si riteneva un dono alla città, un atto di protesta e di bellezza che nemmeno il suo creatore aveva il diritto di abolire.
Perché non si parla, in questo caso, di opere rifiutate, rinnegate dall’artista. Non si parla dei Bacon distrutti dal pittore che non ci si rispecchiava più. Non si parla di errori, non si parla di aborti. Blu le sue opere le aveva compiute e firmate già da anni. Da anni erano punti di riferimento, parte integrante delle mura e del patrimonio artistico culturale della città. Ed è giusto che la città si senta derubata, spogliata. Ma proprio perché i graffiti perduti di Blu non avevano nessun motivo intrinseco per cui essere cancellati, e anzi costituivano i primi passi di una fortunatissima carriera, vale la pena di interrogarsi più a fondo sul significato di un atto doloroso e spietato come quello compiuto dall’artista a inizio marzo scorso. Il graffito, per definizione, nasce come opera di strada, è scrittura esposta, è protesta forse ancora prima che arte. Il contenuto, l’atto (illegale) e il luogo di nascita ne costituiscono sostanzialmente il significato, il valore e la bellezza.
Il graffito nasce per opposizione al compromesso, è un grido fissato sui muri dove tutti quanti possono vederlo, dove tutti quanti possono condividerlo e ripeterlo. E il patto è sopravvivere così, o morire. Il rischio è accettato, è voluto, è parte imprescindibile del gioco.
In un’Italia in cui la conservazione o è imbarazzantemente zoppicante o è talmente spasmodica da rendere quasi inaccessibile quello che dovrebbe essere patrimonio di tutti, in un’Italia stipata di arte chiusa, distante e incomprensibile ai più, i graffiti sono una delle rarissime forme di resistenza, uno dei pochi esempi di arte viva, presente, vicina.
Questo ha detto Blu, con la sua disperatissima presa di posizione. Che la musealizzazione – spesso senza il consenso degli autori – non è una via praticabile. Che non è possibile, non è giusto ricondurre agli schemi dell’accumulo e della monetizzazione un’arte che nasce in esplicita opposizione alla cultura organizzata e ufficiale. Che un graffito divelto e ben protetto non ha ragione di esistere, è peggio che morto, è sterile, imbalsmato. Con un linguaggio gelido, durissimo, Blu ha detto che l’arte di strada rimane in strada. E basta.
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