La comunicazione politica all’epoca dei social, tra disintermediazione e orizzontalità
5 Ottobre 2023 – 17:07 | Nessun commento

E’ fenomeno orami consolidato, da almeno 10 anni a questa parte, il direttissmo comunicativo permesso ai soggetti politici dai social networks. Da questo punto di vista è possibile parlare di un fenomeno di mediatizzazione della politica o webpolitics, che garantisce una diffusione ad una platea straordinariamente più ampia del messaggio politico.La mobile revolution ha reso poi i social media straordinariamente piu’ diffusi e pervasivi, garantendo inoltre l’immediatezza del messaggio politico.In un metaverso che vede archiviata… Read more

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Dal Pop al Populismo. La deriva del patrimonio musicale nazionale

Scritto da – 5 Settembre 2010 – 18:342 commenti

Colpa di Warhol o di Lichtenstein. Vittima degli snobismi di Wilde o dello scherno del Marchese del Grillo. Troppo ben vestita da Marx o mitizzata da Pasolini. La poetica popolare, l’estetica e l’identità della società di massa,  è sempre stata inevitabilmente al centro degli studi e delle critiche dei pensatori più brillanti ed eterogenei del passato. La musica leggera, essa stessa una departita dall’antica musica colta, rappresenta dai tempi di Elvis e di Modugno la presa della Bastiglia nella concezione dell’intrattenimento musicale, una conquista popolare, una musica per tutti, (ri)producibile e fruibile da ogni appassionato.

Nonostante ciò un’ulteriore frattura ha reso evidente al suo interno il conflitto insito in ogni prodotto artistico di massa: quello tra qualità formale, ricerca tecnico-poetica e autorialità da un versante, e dall’altro la necessità di realizzare un buon risultato commerciale, reso possibile dalla massificazione dell’oggetto musicale. Il fenomeno, caratteristico dell’intero settore a livello internazionale ha trovato nel nostro paese veri scontri e dicotomie, fino a veri divorzi all’Italiana tra il pubblico, diviso tra Area e Pooh, tra Nek e Capossela, Mango o Vasco Brondi. Così irrimediabilmente antitetica è effettivamente la proposta complessiva del nostro panorama nazionale?

In realtà l’artigianato pop, come dimostrato dai Beatles fino a Battisti, ha sempre avuto una propria dignità creativa, fino ad aspirare alla definizione di opera d’arte. La musica popolare è solo uno scaltro, ma non questo deprecabile tentativo di unire qualità compositiva e successo di distribuzione (e acquisto).

Sicuramente i discografici nel paese del bel canto hanno avuto gioco facile nell’imporre un mercato redditizio e variegato, che rispondesse alle più disparate esigenze di un pubblico frammentato ma ben consapevole delle proprie scelte. Per questo è stata eletta addirittura una città a impersonificazione di questo scontro tra presunte istanze intellettuali contro quelle di consumo più immediato: Sanremo, spaccata in due dalle melodie che arrivano dal leggendario Ariston, a febbraio diventa con il Festival il palcoscenico nazional-popolare per eccellenza, ad ottobre con il Premio Tenco si tramuta nel buen retiro della musica d’autore italiana, in nome di quel bel Lucifero che primo su tanti denunciò più di quarant’anni fa le manipolazioni e l’ipocrisia della kermesse canora che ormai è identificata con la città dei fiori. La morte di Tenco è stata solo la prima vera ombra gettata su uno show business che in nome del giusto introito non ha lesinato impasti, favoritismi, divieti di vittoria (il famigerato secondo posto di Elio e le storie Tese nel 1996?) o costrizioni, playback, verdetti inaspettati. Soltanto che, come in politica, mezzo secolo di cattivo gusto, proposte dozzinali, ma anche di grandi rivelazioni, di sorprendenti performance e serate di notevole magia musicale possono essere tollerate. Anzi si può persino ruotare attorno al carrozzone con ammirazione, seppur con le croniche obiezioni di sempre.

Tutto fino alla goccia finale, l’ultimo tassello del domino che finora non era stato toccato. Ovvero “la discesa in campo” nell’universo del marketing musicale da parte del mondo dello spettacolo, non più come elemento correlato, ma come principe nella stanza dei bottoni. Un travaso di poteri dovuto alla crisi delle major e del gotha della discografia nazionale ha portato inesorabilmente alla fine dell’indipendenza del businness del disco. Conseguentemente alla ricerca di un valido sostegno mediatico, questo si è affidato al mondo dello showbiz credendo di poterne trarre linfa per il proprio avvenire. In realtà la magnetica voragine dei mass media, veri e incontrastati dominatori economici del XXI secolo, ha portato a sostituire gli antichi (mal)costumi con uno svuotamento totale dei contenuti, creando luccicanti contenitori dalle tinte rissose e dallo spessore più becero: i talent show. Si è cominciato a valutare l’artista come un intrattenitore, studiando il come anziché il cosa, cercando polli da allevare e materie prime da lavorare. Lo star system ha sempre avuto tale componente, il fatidico motto di ogni ambizioso impresario, “farò di te una star!”. Quel lasciarsi “usare”, quel mettere il proprio talento a disposizione della parte commerciale e organizzativa di settore. Il vero problema è il parametro della selezione:  si cercano uomini e donne intonati che sappiano usare la propria voce e con capacità di muoversi su un palco, non si cercano cantanti.

La differenza è la valutazione dei soli aspetti formali, quasi un’atteggiamento scientifico, da laboratorio in cerca di cavie. Non si capisce la differenza tra chi “tira su” un cavallo da corsa e un calciatore. In entrambi i casi l’agente sceglie in principio basandosi sulla fisicità, sulla naturale prestanza: ma poi il cavallo diventa solo una macchina da tenere ben in allenamento e con le funzionalità qualitative in eccellenza, il calciatore viene allenato, cresciuto, ma soprattutto diventa un creativo. Perché in lui, anche se non è la prima persona a calciare un pallone nella storia dell’uomo, nasce un atto originale, personale e autentico: la reinterpretazione di modelli serve giusto in una fase iniziale della carriera (come dovrebbe essere in musica per le cover band) per assestare le proprie capacità. Da lì in avanti si susseguiranno piccoli atti creativi, più o meno riusciti, ma sempre con un suo inconfondibile modo di interpretare la propria passione. Nel mondo ormai tecnocratico della musica l’interpretazione, ciò che ha fatto grandi i puri cantanti del passato, dalla Vanoni a Dean Martin, è stata invece sotituita dall’imitazione. Come se, tornando alla metafora calcistica, a un piccolo calciatore si chiedesse – anziché la capacità di saper giocare e reggere una partita di pallone – di esibirsi in un’imitazione dei tocchi di un grande del passato. Replicami Pelé o David Bowie e farò di te una star. L’equazione non torna, semplicemente perché dall’imitazione pura, dall’apprendimento ottuso del mero aspetto tecnico dell’arte musicale, possono derivare solo inquietanti brutte copie o ancor peggio cloni pluriassemblati di glorie del passato.

Non solo è bene imparare a riconoscere questa deriva contenutistica del pop da cassetta, capire la differenza tra chi è un artista, chi fa l’artista, e chi è un artista ma preferisce ugualmente “recitare” una parte pre-impostata per convenienza di notorietà. È ancora più rilevante ribadire che, nonostante le insidie dello schermo, dei talent show, e dei gusti maccheronici dell’audience nazional-popolare, la vera musica POPolare in Italia risiede altrove.

Chi vive il “paese reale” (come quello professato l’anno scorso dai coraggiosi Afterhours) sa bene che questo è ben rappresentato da due ben altri filoni che nell’ultimo decennio si sono imposti come protagonisti: da una parte il panorama indie, sempre più sprovincializzato e d’altro canto sempre meno esterofilo, pronto finalmente ad abbandonare i vecchi panni di outsider, per sublimare l’iniziale vocazione alternativistica in una nuova responsabilità d’autore. Per questo il pop non viene più visto come un mondo parallelo da cui guardarsi con diffidenza, ma come una realtà conquistabilissima, e anzi da abbracciare a chitarre tuonanti per diffondere con più slancio la qualità della propria proposta.

Dall’altro versante, dobbiamo ribadire la grande rivelazione degli anni zero, e cioè la rivalutazione definitiva della musica etnica. Riuscendo a coinvolgere due Italie risvegliatesi da mondi solo apparentemente lontanissimi, la taranta pugliese e i piccoli romanzi comaschi di Van De Sfroos sono partiti da direzioni opposte per conquistare la stessa penisola, stimolando ogni regione ad un recupero della propria tradizione locale, in un tripudio di canti dialiettali e cantastorie rivalutati dopo decenni di oblio come veri padri fondatori dell’humus musicale del Belpaese.

La sfida all’indomani del nuovo decennio è raccolta tutta qui: nella difesa e nella celebrazione della nostra naturale inclinazione culturale più squisitamente popolare, senza per questo assecondare quel pericoloso iato tra democrazia musicale e oligarchia mediatica.

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2 commenti »

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